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Comportamento dei cani – Le differenze comportamentali delle razze canine

EREDITA’ E COMPORTAMENTO: DIFFERENZIAZIONE COMPORTAMENTALE DELLA SPECIE CANIS FAMILIARIS NEL CORSO DELLA SELEZIONE DEI DIVERSI RAGGRUPPAMENTI RAZZIALI

Purtroppo solo un ridotto numero di futuri proprietari sceglie di consultare il Medico Veterinario prima di prendere un cucciolo: se fosse possibile realizzare più frequentemente una visita preadozione molto probabilmente il livello di reciproca soddisfazione nel rapporto tra proprietario e cane sarebbe più elevato. Il Medico Veterinario Generalista dovrebbe essere una figura di riferimento per indirizzare verso una scelta consapevole i futuri proprietari, informandoli sulle necessità̀ etologiche della specie, ridimensionando aspettative che si rifanno a “miti e credenze popolari”, e cercando di scoprire se nella gestione famigliare esista la possibilità di soddisfare i fabbisogni dell’animale. Un cane non è alla portata di tutti!

Le razze di cani ufficialmente riconosciute sono più di 400 e variano per taglia dal kg scarso del Chihuahua all’oltre un quintale del San Bernardo. Questa enorme variabilità di forma e dimensione, frutto di millenni di selezione da parte dell’uomo, si accompagna ad una pari variabilità nell’espressione dei comportamenti tipici di specie. È impensabile che il lungo e articolato processo evolutivo che a partire dal lupo (Canis lupus) ha consentito di arrivare al cane (Canis familiaris) in tutte le varietà che esistono oggi, non abbia modificato in maniera diversa da razza a razza il complesso etogramma di questo predatore.

Sono sorte in ambito scientifico diverse diatribe sull’origine evolutiva del cane. Dal punto di vista genetico si è potuto riscontrare una corrispondenza quasi completa tra il DNA di lupo e quelli di cane, sciacallo e coyote (Rispettivamente Canis lupus, C. Familiaris, C. Aureus e C. Latrans). Studi che analizzano il DNA mito condriale possono supportare l’ipotesi che tutti questi animali derivino da un antenato comune, molto simile al lupo, di cui si possono praticamente considerare sottospecie. Lupo, cane, sciacallo e coyote infatti sono in grado, se incrociati, di dare prole feconda e sono contraddistinti unicamente da differenze di natura ecologica ed etologica, oltre che morfologica (Clutton-Brock, 1995).

Dal punto di vista sociale questi animali hanno adottato strategie diverse, a seconda del tipo di risorse ambientali disponibili, come anche lo stesso lupo varia la composizione numerica del branco a seconda del tipo di prede che deve cacciare. Lo sciacallo ed il coyote sono monogami, il lupo può vivere solitario, in gruppi famigliari o in grandi branchi (Abrantes, 1997), il cane a sua volta può adottare tutte queste strategie sociali. Alcuni cani vivono agevolmente in mute numerose senza conflitti, altri tollerano a malapena un esemplare di sesso opposto per il periodo dell’accoppiamento.

Per meglio comprendere il comportamento del cane è bene analizzare le caratteristiche che oltre 12.000 anni fa hanno fatto sì che l’uomo lo scegliesse come primo animale domestico. I più antichi reperti archeologici che possono confermare una convivenza di uomini e cani risalgono al periodo Mesolitico, circa 10.000 anni prima di Cristo (Davis e Valla, 1978).

Si può ipotizzare che la prima funzione utile svolta dal cane fosse quella di sentinella avvisatrice: i cani selvatici/lupi avevano probabilmente cominciato a vivere intorno agli insediamenti umani cibandosi dei residui alimentari che reperivano nelle discariche (altra funzione utile proprio questa di spazzini) e quando qualcuno (uomo o animale) si avvicinava avvisavano che il territorio era stato “invaso”. Questo servizio era sicuramente molto utile in un mondo ancora frequentato da temibili fiere e tribù nemiche.

La convivenza più stretta con il lupo ha permesso all’uomo di notare la grande efficacia predatoria, spesso frutto del lavoro di gruppo, di questo animale. Il passo successivo della coevoluzione delle due specie è stato quello di collaborare nella caccia e successivamente nella sorveglianza degli armenti poiché da cacciatore-raccoglitore l’uomo stava diventando coltivatore e allevatore.

L’uomo ha attuato un processo di selezione artificiale. Il criterio con cui venivano scelti i soggetti che potevano accedere alla riproduzione e acquisire così la possibilità di trasmettere il loro corredo genetico alle generazioni successive era quello di privilegiare i soggetti più efficaci nel lavoro.

Ciascun comportamento può essere considerato come una sequenza di schemi motori, che ne sono le componenti elementari. Il modo in cui ogni schema motorio viene eseguito da un individuo è condizionato da come lo specifico assetto genetico dello schema stesso è stato elaborato in base all’esperienza. Comportamenti geneticamente programmati hanno bisogno comunque di essere attivati, e modulati, spesso in periodi critici o situazioni specifiche.

Per esempio il comportamento materno ha una forte base istintiva, ma viene notevolmente migliorato dall’apprendimento che ha avuto luogo in eventuali parti precedenti o assistendo all’allevamento di cucciolate di altre femmine (spesso la madre stessa della fattrice). Esiste comunque un limite oltre il quale l’ambiente non è in grado di influenzare l’intensità con cui si manifesta un comportamento determinato geneticamente: non è possibile far comparire repertori assenti o cancellare quelli presenti. Per esempio un cane da seguita è selezionato per abbaiare durante l’inseguimento e può tendere a farlo anche in altre circostanze in cui è eccitato. Nel caso in cui uno di questi cani durante la caccia non abbaiasse, sarebbe piuttosto improbabile riuscire ad insegnarglielo in quanto la base del comportamento è genetica.

Molti dei comportamenti del cane sono riconoscibili nel comportamento predatorio ancestrale in cui viene eseguita una sequenza di atti contraddistinta dalla successione di fasi consecutive concatenate: localizzazione – sguardo – avvicinamento – inseguimento – morso per immobilizzare – morso per uccidere – consumo (Coppinger e Coppinger, 2001).

Si può osservare come nei comportamenti tipici delle varie razze l’uomo abbia abilmente modulato questa sequenza interrompendola prima del completamento, ipertrofizzandone alcune fasi e/o sopprimendone altre. Nelle differenti razze gli schemi motori cambiano quindi sia per l’effettiva presenza, che per intensità e frequenza di apparizione (o facilità ad essere evocati).

Si possono così vedere cani che mettono in atto tutta la sequenza, come per esempio i segugi che trovano, scovano, inseguono e uccidono la volpe, o cani che arrivano all’immobilizzazione della preda ma non la uccidono, come i levrieri arabi poiché il musulmano non può consumare carne di animali non uccisi da uomini, quindi il cane deve solo immobilizzare la preda, ma non la può finire. Alcuni cani invece si limitano a localizzare e avvistare, poi interrompono la sequenza predatoria esasperando la fase di avvistamento con un’immobilità molto spettacolare come la ferma.

Gli stessi schemi motori della sequenza predatoria sono riconoscibili anche al di fuori di un contesto di caccia in molti comportamenti del cane, come per esempio la conduzione delle greggi.

Attraverso la selezione è stato possibile modulare anche l’espressione di schemi motori legati alla socializzazione ed alla capacità di comunicare, in particolare nelle diverse razze è stato notevolmente influenzato il comportamento agonistico. Sostanzialmente non vi sono grosse differenze nelle modalità con cui i cani competono, ma la variazione è nella facilità con cui i suddetti comportamenti possono essere evocati: alcuni cani hanno per esempio eliminato o sensibilmente ridotto la capacità di recepire segnali di sottomissione o di interrompere un’aggressione per preservare la propria integrità come i cani da combattimento o quelli da caccia in tana (Scott e Fuller, 1965). Attraverso la selezione possono comunque anche comparire repertori comportamentali agonistici nuovi, e per esempio è stato ottenuto un ceppo di cani da combattimento che prima dell’attacco colpisce con il petto l’avversario per sbilanciarlo incrociando i soggetti che casualmente presentavano questo comportamento (Coppinger, 2001).

Si potrebbe andare avanti all’infinito a fare esempi di come l’uomo ha pescato a suo piacimento nel “calderone” dei repertori comportamentali del cane isolando quei comportamenti o quelle sequenze di schemi motori che più gli facevano comodo.

Fino alla seconda metà dell’800 le razze che noi oggi conosciamo praticamente non esistevano. Solo allora l’uomo ha cominciato a mettere in atto programmi di allevamento zootecnicamente evoluti, in cui gli individui erano isolati sessualmente e veniva effettuata una vera e propria selezione artificiale, registrando poi gli accoppiamenti nei libri genealogici ed impedendo la riproduzione dei soggetti non iscritti ai suddetti libri.

Il criterio prevalentemente utilizzato sino a quel momento per identificare gli elementi degni di trasmettere le loro caratteristiche alle generazioni successive era quello di scegliere gli individui che meglio sapevano svolgere un lavoro specifico. I caratteri morfologici il cui valore è prevalentemente “cosmetico” come colore o lunghezza del mantello, portamento delle orecchie o della coda e così via, sono stati presi in seria considerazione per la prima volta in quel periodo. Purtroppo oggi le differenze morfologiche vengono spesso superficialmente considerate essere le uniche tra le varie razze e la selezione si basa esageratamente su di esse a discapito della conformazione caratteriale. Il profilo comportamentale di un individuo di una data razza è l’espressione di un assetto genetico esattamente come lo possono essere caratteri morfologici: il modo di reagire agli stimoli ambientali è in funzione anche di una differente distribuzione e quantità dei neurotrasmettitori nelle diverse sezioni del cervello. È stato rilevato che razze canine con tendenze reattive diverse hanno un diverso assetto di neurotrasmettitori come la dopamina e altre monoamine, direttamente coinvolte nell’attivazione delle vie neuronali alla base di comportamenti come la predazione o l’aggressione (Arons e Shoemaker, 1992).

Un cane da lavoro porta in sé dei repertori comportamentali notevolmente specializzati, e solidamente radicati nel suo patrimonio genetico attraverso generazioni di incroci. La presenza di quelle caratteristiche, apparentemente innate è spesso definita “istinto”.

A differenza dei lupi, anche addomesticati, i cani sono addestrabili a compiere lavori in collaborazione con l’uomo. La possibilità di essere addestrati non è uguale in tutti i cani. Il cane è come l’uomo una specie neotecnica, cioè che conserva anche da adulto modalità infantili di apprendere o relazionarsi con l’ambiente e con gli altri individui (per esempio è più facilmente portato a socializzare con specie diverse dalla sua). La compresenza di schemi motori adulti con quelli giovanili durante la lunga fase evolutiva offre alle specie neotecniche una maggiore plasticità comportamentale: l’adolescente può organizzare gli schemi motori in sequenze nuove mescolando quelli dell’adulto (in genere strutturati in sequenze funzionali fisse) con quelli infantili. Si vengono ad ottenere successioni che non erano disponibili negli schemi originari. Di solito il processo di apprendimento in cui comportamenti adulti vengono messi in atto “fuori contesto” in sequenze non funzionali al conseguimento di obiettivi apparenti viene definito gioco. Sfruttando la sua propensione a giocare l’uomo può far eseguire al cane gli schemi motori della specie organizzati in nuove sequenze, ottenendo così comportamenti per lui utili. Questo è quello che avviene nell’addestramento. Le razze più facilmente addestrabili sono quelle più neoteniche, quindi più plastiche nelle modalità di apprendimento (Coppinger e Shneider, 1995).

L’addestramento può rendere massimamente produttive le tendenze intrinseche dell’animale, “tirandole fuori” al meglio e modulandone le modalità espressive, ma non può in nessun modo determinare la presenza di schemi motori che hanno una base genetica. Per esempio si può insegnare al cane a mantenere la posizione di ferma per un tempo più lungo, dando modo al cacciatore di organizzarsi al meglio per sparare al selvatico, ma non si riuscirà mai a far mettere in ferma un cane che non ha questa tendenza.

Il cane deve spesso eseguire compiti complessi in cui la sua libertà di esprimere i comportamenti di specie è imbrigliata in una sequenza artificialmente controllata dall’uomo e priva di un significato etologico. Camminare, per esempio, è un comportamento normale per il cane, farlo a dieci centimetri dal ginocchio sinistro del conduttore che ha appena pronunciato le parole “Al Piede” è il frutto di un addestramento specifico. In questi casi la valenza della selezione artificiale è quella di privilegiare i soggetti fisicamente meglio conformati per il compito da svolgere, e con tendenze reattive ed emozionali le più adeguate possibile al lavoro, che dovrà comunque essere insegnato con l’addestramento.

È stata comunque documentata l’ereditabilità di particolari conformazioni comportamentali, anche molto specifiche come per esempio la posizione in cui i cani Dalmata si mettono mentre seguono la carrozza (Coren, 1996) o l’ampiezza della curva di avvicinamento al gregge dei Border Collies (Coppinger, 2001). È risultato invece più difficoltoso identificare le modalità in cui si trasmettono caratteristiche comportamentali più complesse come quelle che consentono di riuscire nel lavoro ai cani da caccia, guida per ciechi, e altro: nei diversi lavori sono state trovate effettivamente relazioni tra le capacità performative dei genitori e quelle dei figli, ma non sempre fisse. Probabilmente questa relazione incostante si può spiegare considerando il fatto che comportamenti complessi come quelli che consentono di lavorare ai cani da cieco, o da caccia sono il risultato dell’espressione di un grande numero di geni che si può organizzare in infinite maniere diverse, inoltre risulta più difficile misurare e confrontare i risultati di queste attività (Willis, 1995).

Prima di passare ad una descrizione dei comportamenti dei vari gruppi di razze è bene mettere in chiaro il fatto che una classificazione di questo tipo consente di effettuare previsioni di tipo approssimativo sull’effettivo carattere di un individuo: il comportamento è condizionato da una molteplicità di fattori tra cui la componente puramente ereditaria è rilevante, ma non certo preponderante. L’ambiente di sviluppo e gli apprendimenti, con particolare influenza di quelli avvenuti nei periodi di sensibilità, condizionano sicuramente l’indole e la reattività del singolo.

Il tipo di previsione che si può fare sulla base della razza è tendenzialmente di tipo probabilistico: se noi prendiamo per esempio 30 cuccioli di setter di tre mesi e li mettiamo di fronte ad una quaglia noteremo che la maggior parte tenderà a mettersi in ferma, ma è improbabile che lo facciano tutti, e quelli che non fermano rimangono comunque dei setter.

Nel momento in cui si decide di adottare un cane di razza bisogna prendere in considerazione anche diversi altri fattori come sesso, taglia, e similitudine tra la vocazione originaria ed il reale utilizzo che se ne farà.

 

Sesso

Quasi tutti coloro che decidono di prendere un cane per la prima volta vogliono un maschio. Non sempre è la scelta migliore.

Tra i vantaggi si può̀ considerare il fatto che non va in calore e sicuramente non si rischia di avere cucciolate indesiderate. Spesso è̀ più appariscente, con più pelo, una testa più grande, insomma a prima vista più “bello”. Almeno in teoria è possibile poter usare il maschio come riproduttore guadagnando con i diritti di monta.

Gli svantaggi invece comprendono il fatto che molto più spesso delle femmine non va d’accordo con i conspecifici dello stesso sesso, inoltre è più frequente che marchi in casa, scappi e vagabondi. Quando deve sporcare emette piccoli quantitativi di urina ripetutamente per marcare il territorio, e le uscite igieniche (non le passeggiate che sono necessarie in egual misura per entrambi i sessi) devono essere piu lunghe. Piu frequentemente delle femmine ha problemi di tipo gerarchico nei confronti dei proprietari. Un maschio non di qualità eccelsa, non provvisto di titoli espositivi o agonistici, difficilmente viene scelto come riproduttore.

La femmina rispetto al maschio è più piccola e sicuramente meno appariscente. Se non si procede con la sterilizzazione richiede attenzioni nei periodi di calore. Anche se non morfologicamente perfetta si può far riprodurre godendo dell’esperienza del veder crescere una cucciolata e ottenendo un certo guadagno con l’eventuale vendita dei cuccioli (che comunque comporta anche numerose spese extra). Quando si libera la femmina emette tutta l’urina in una volta e le uscite igieniche sono più brevi. Spesso la femmina è di indole più dolce e affettuosa.

Non vi sono differenze provate nella capacità performativa in compiti specifici addestrativi tra maschi e femmine.

 

Taglia

 

Un luogo comune piuttosto diffuso è quello che considera un cane piccolo meno bisognoso di spazio ed attività rispetto ad uno grande. Non sempre è vero, anzi spesso è il contrario.

Numerosi piccoli cani diffusi oggi come soggetti da compagnia hanno alle spalle generazioni di soggetti utilizzati nel lavoro come cani da caccia, come derattizzatori di stalle e case, come sentinelle avvisatrici e sempre vigili o addirittura come pastori. Tutte queste vocazioni non sempre costituiscono la migliore premessa per una convivenza serena in un ambito urbano strettamente promiscuo come quello in cui vive la maggior parte della popolazione.

Un altro preconcetto molto diffuso, specialmente tra gli uomini, ma non solo, è quello che i cani di taglia piccola non si possano considerare cani a tutti gli effetti, ma una sorta di giocattoli da signora, dotati di una dignità inferiore rispetto ad individui di taglia più cospicua. Ovviamente questo non è vero. È possibile che molti cani di piccola taglia non siano correttamente socializzati con i conspecifici in quanto i proprietari li hanno sistematicamente sottratti alle interazioni (per esempio prendendoli in braccio o portandoli via) per paura che venissero feriti dai cani più grandi. Questi individui rischiano effettivamente incidenti gravi perché non avendo la possibilità di relazionarsi con gli altri durante lo sviluppo non acquisiscono i repertori di comunicazione che avrebbero consentito loro di gestire le interazioni in maniera non cruenta. Qualunque cane, di qualsiasi taglia, in realtà, se lasciato socializzare correttamente nel periodo giovanile, è in grado di imparare a gestire le interazioni con i conspecifici. La tendenza a relazionarsi in maniera competitiva con gli altri cani è sicuramente diversa nelle varie razze, ma non in correlazione con la dimensione.

I cani di taglia grande, al di là dell’effettivo maggiore ingombro, spesso sono poco attivi, meno reattivi e si muovono meno di soggetti più piccoli. Bisogna comunque tener conto del fatto che un cane più grande ha dei costi di gestione più alti di uno piccolo oltre ad avere un ingombro effettivo maggiore. Va inoltre previsto che un soggetto di taglia cospicua richiederà un proprietario in grado di controllare fisicamente la sua notevole forza in caso di necessità.

 

Vocazione e utilizzo finale

 

Il criterio con cui inizialmente sono state differenziate le razze è stato quello di ottenere soggetti specializzati per determinati lavori, in cui fosse meno impegnativo nel passaggio da una generazione all’altra il lavoro necessario per ottenere un ausiliario operativo ed efficace.

Parallelamente si è messa in atto una evoluzione dell’aspetto esteriore perfezionata enormemente nell’ultimo secolo sia per le sue valenze funzionali che per le estetiche.

Mano a mano che il cane si è staccato dalla sua funzione utilitaristica strettamente lavorativa le sue capacità performative sono diventate a volte inopportune perché prive di un contesto in cui esprimersi.

Se si sceglie un cane da lavoro (di qualunque tipo di lavoro si tratti), dobbiamo tenere conto delle esigenze dell’animale che abbiamo preso: se non sono compatibili con le nostre faremmo meglio a pensare a quale è il costo di sopprimere completamente impulsi per lui spontanei (ammesso che siamo così capaci da riuscire nell’impresa), in termini di impegno per noi e di sofferenza per l’animale.

Per un cane il poter esprimere i comportamenti intrinseci del suo patrimonio genetico fa parte del soddisfacimento dei bisogni vitali, come il mangiare: gli schemi motori, specialmente quando ipertrofizzati hanno forti motivazioni interne ed è la loro stessa esecuzione che fornisce appagamento. Quando adottiamo un cane da lavoro se abbiamo a cuore il suo benessere oltre che il nostro dobbiamo tenere conto anche di questo, analizzando le effettive possibilità di soddisfare le esigenze etologiche del nostro compagno.

Andando a verificare per che utilizzo si sono selezionate le razze si può avere un’idea delle eventuali difficoltà di adattamento che potrebbero incontrare in un contesto molto diverso.

La classificazione delle razze scelta dalla Federazione Cinologica Internazionale le ha divise in dieci raggruppamenti seguendo un criterio morfologico filogenetico che non sempre unisce razze con attitudini simili. Analizzeremo i gruppi uno ad uno.

I – Cani da pastore e bovari, esclusi bovari svizzeri.

II – Cani di tipo Pinscher, Shnauzer e Molossoidi, Bovari svizzeri.

III – Terrier

IV – Bassotti

V – Cani di tipo Spitz e primitivi.

VI – Segugi e cani per pista di sangue.

VII – Cani da ferma.

VIII – Cani da riporto, da cerca e da acqua. IX – Cani da compagnia.

X – Levrieri

 

Fonte bibliografica: ANTONIO ANDINA Medico Veterinario Bologna

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